22 Marzo 2016
Il nuovo rapporto dell’associazione Italiadecide intitolato “Italiadigitale” spiega come si può recuperare un ritardo che abbraccia le infrastrutture, i servizi pubblici, la burocrazia. Non basta più digitalizzare le informazioni della pubblica amministrazione trasmesse agli utenti. Questo approccio è superato. La digitalizzazione deve coinvolgere l’industria, la scuola, la società intera.
L’errore strategico è stato seguire un «approccio settoriale» anziché pensare a un sistema aperto (governo, pubblica amministrazione in tutte le articolazioni, società civile). Dal 2000 i governi hanno lanciato piani per l’e-government, limitandosi all’uso delle tecnologie nella pubblica amministrazione. Questo «vizio culturale d’origine» ha prodotto «un effetto di chiusura» e non ha funzionato: i piani sono rimasti largamente inattuati. Nel tempo in cui una pubblica amministrazione ingessata e con l’età media più alta d’Europa recepisce processi di innovazione, la tecnologia li rende desueti. I totem nelle strade sono un esempio.
Chi deve promuovere questo choc? In Italia le imprese in grado di farlo sono poche. Gli investimenti pubblici sono pochi (1,2% del Pil, quasi metà della media europea e un terzo degli Usa) e frammentati. Mancano grandi progetti. Quello fondamentale è la banda ultralarga. L’Italia è in ritardo. Nel 2015 il governo ha varato un nuovo piano, per attirare investimenti privati da sommare a quelli pubblici. Dopo l’iniziale entusiasmo, è seguito l’ennesimo stallo. I privati attendono certezze: quanti soldi pubblici? quanti incentivi fiscali? distribuiti come?). Il governo tarda a darle. «Si rischia l’ennesima occasione mancata».
La pubblica amministrazione non è in grado di governare lo choc. Nel 2012 è nata L’Agenzia per l’Italia digitale. Due anni dopo Graziano Delrio, allora sottosegretario a Palazzo Chigi, dichiarava: «La governance dell’Agenzia è manicomiale e barocca». Solo un anno fa è nata una commissione di coordinamento con le Regioni. Senza un forte soggetto nazionale, si rischia uno spezzettamento di competenze esiziale. Solo nella gestione dei dati anagrafici, per 8 mila Comuni sono stati censiti 200 diversi software.
Anche la produzione di leggi, abbondante negli ultimi anni, non è risolutiva. Molte norme sono inattuate o applicate in modo frammentario. Inoltre il mondo digitale impone norme sovranazionali, come risulta evidente in materia fiscale. L’Unione Europea è in ritardo.
Il rapporto fa alcune proposte concrete. Cose da fare subito. Dal punto di vista istituzionale, creare un ministero ad hoc con forti collegamenti sociali e una commissione parlamentare per monitorare costantemente l’attuazione dei piani. Dal punto di vista normativo, rafforzare il Garante della privacy. Dal punto di vista infrastrutturale, incentivare le imprese semplificando le procedure urbanistiche e ambientali e coinvolgere attori (gestori di servizi elettrici, concessionari autostradali) diversi da quelli delle telecomunicazioni. Dal punto di vista amministrativo, utilizzare i big data nella revisione della spesa pubblica e formare una nuova generazione di dipendenti pubblici. Dal punto di vista produttivo, sbloccare le procedure per le smart city e accelerare l’uso dei fondi europei per le imprese innovative. Dal punto di vista formativo, virare sul digitale il meccanismo dell’alternanza scuola-lavoro e cambiare la natura degli istituti scolastici trasformandoli in piccoli laboratori produttivi. Dal punto di vista della sicurezza, utilizzare la biometria per l’autenticazione ai servizi online e ridurre i «data center», nazionalizzando tutte le infrastrutture digitali pubbliche.
Fonte: La Stampa